Nella libreria. Ero sempre lì. Non ho ancora figli da accudire, né posso uscire di casa. Mio marito non apprezzerebbe l’umiliazione di sapermi in giro. Ad ogni modo non riuscirei nemmeno ad andarmene, anche se lo volessi. La mia pelle si macchierebbe subito e le mie gambe cederebbero sotto l’abito, sempre più pesante e ingombrante. A volte penso che mio marito mi voglia così gonfia e scomoda solo per non vedermi correre via, per tenermi ferma, per bloccarmi qui. Per sempre. “Devi restare incinta e provvedere alla casa”, questo mi dice sempre. Né l’una né l’altra attività mi danno alcuna emozione. Ho ricevuto la notizia di amiche diventate mamme, di nuovi padri di famiglia felici e rossicci con in mano il loro sigaro che hanno brindato brevemente in casa prima di dirigersi al primo bordello disponibile. Ho letto lettere tristi di nomi a cui non posso più associare le amicizie e i legami che avevo con quelle persone, perché sono state definitivamente chiuse in casa, prigioniere di attività mondane ripetitive. Mio marito si è già premurato di inchiodarmi al mio posto, tra le mura di una vittoriana dimora troppo grande per noi, troppo allungata, troppo generica con tutte le chincaglierie che non posso toccare, prendere in mano o domandare. Però ho ancora la mia libreria. Ho lottato per averla e ho dovuto promettere di mantenere contegno e rispetto nei confronti di mio marito, per evitare che me la distruggesse. Ma ora ho il mio spazio e la governante pensa al resto senza che io venga disturbata o che nessun altro al mondo sappia del mio passatempo. Ma ho un segreto nel segreto: l’ametista. Mi ha trovata nel mio periodo di crisi, quando il mondo si è fatto buio e non sono rimasta subito incinta dopo il matrimonio. Mio marito era diventata una creatura irritante e irrequieta, violenta. Ho ancora i segni sul corpo che nessuno potrà mai vedere. Ma quando mi facevano ancora male, quando il viola non era ancora diventato giallognolo, ho visto la mia ametista. Era sotto ad un faggio, uno dei tanti che circondano casa nostra e che delimitato il limite entro il quale potevo muovermi prima di essere per sempre rinchiusa qui. L’ametista era lì, che brillava viola, luminosa, delicata, bellissima. Non volevo raccoglierla, ma sapendo della mia reclusione, avevo paura di non poterla più vedere. Ho impiegato del tempo per lasciarla lì dov’era, perché non volevo affligerle il mio stesso destino. Mi ero limitata a darle una breve carezza ed ero tornata alla mia oscurità. Una volta dentro, al riparo nella mia libreria, l’ho vista sull’orlo del mio abito scuro. Era appesa, con dei piccolissimi filamenti che lentamente si stavano staccando per legarsi al pino della libreria. Ho osservato quell’ametista risalire tutto il piano, fino a nascondersi dietro ai volumi più grandi. Da quel giorno ho riempito la libreria di piccoli alberelli e piante, fiori e germogli e c’è sempre una vaschetta d’acqua. Quando arrivo e chiudo la porta, l’ametista esce, brilla adornata dalla luce del sole e scende per dissetarsi. La vedo giocare con le piante, appollaiarsi sulla finestra a guardare il suo faggio. Appena sbatto le palpebre scompare e mi chiedo se sia stata un’allucinazione. Corro alla finestra ed è ai piedi del faggio, violetta e delicata. Ritorna da me quando scelgo il libro del giorno e inizio a leggerlo ad alta voce. Quando si accovaccia sul mio collo, chiude gli occhi fatti di spiragli luminosi e diventa come una pietra immobile. Ma io sento il suo battito e lei sente il mio. All’unisono dei nostri cuori, le parole che dico diventano immagini, la storia diventa vera, la libreria si trasforma in un ambiente mai visto prima. Ci ho fatto l’abitudine, ora, e so anche che è una cosa che posso vedere solo io, grazie all’ametista. Dev’essere lei a creare queste illusioni visive. Una volta la governante è entrata perché nella mia foga del racconto avevo messo il piede sulla vaschetta d’acqua rompendola e lei si era preoccupata. Entrando mi aveva guardata subito, senza notare i leoni e gli elefanti attorno a lei, la giungla che si muoveva a ritmo di un’ebbrezza che sapeva di fiori selvatici. Non aveva nemmeno dato troppo peso all’ametista sul petto, forse scambiandola per un gioiello dato da mio marito. Aveva solo preso la vaschetta dicendomi che sarebbe tornata più tardi con un’altra nuova d’acqua limpida e se n’era andata lasciandomi al mio mondo fatti di segreti e di immagini, di parole potenti e di due cuori rossi e viola.